Ecco perché la produzione industriale italiana è crollata. E che cosa potrebbe avvenire in futuro…


In linea con quanto è in atto negli altri paesi europei, anche in Italia il brusco calo della produzione industriale riflette difficoltà di carattere generale e fa intravedere una recessione.
Ma in più soffriamo fortemente per la debacle dell’ automotive trainata dai dati negativi tedeschi e per le incertezze della politica 4.0 del governo, con una manovra che già ora  risulta inadeguata.
Come se ne esce? Il punto di vista dell’economista Marco Fortis (Fondazione Edison) e dell’advisor Marco Mignani (EY)
La flessione oltre le attese della produzione industriale di novembre, una frenata pari a -2,6% su base annua, è figlia di diversi fattori. Tra i tanti, se ne possono reperire alcuni che hanno pesato di più su quella che, secondo alcuni, può inverarsi in una Caporetto per le fabbriche italiane, con l’affossamento della fragile ripresa degli ultimi anni.

Quanto agli investimenti privati, sono in decelerazione a causa delle incertezze del governo sul rinnovo degli incentivi sul 4.0, e per via di un generale clima di sfiducia tra operatori economici determinato dall’inserimento in Manovra di misure bandiera assistenziali e dalle cupe prospettive legate al recupero di 23 miliardi per scongiurare l’aumento dell’Iva.

Quanto agli investimenti pubblici, grandi opere per ora non sono in corso.

Quanto alla leva dei consumi, non funziona più, perché dopo anni di calo, attualmente la pressione fiscale è in crescita.

Un’altro volano della manifattura è l’automotive: quello italiano è in terreno negativo per il 13,3%, quello tedesco va anche peggio incidendo sulla flessione del 4,7% su base annua della produzione industriale tedesca.

Pessima notizia, perché il rallentamento della locomotiva di Berlino determinerà effetti recessivi su tutto il Vecchio Continente, e soprattutto sul Belpaese, anche considerato il gran numero di aziende nostrane terziste di quelle tedesche.

Il quadro è infine complicato dalla necessità di piazzare 400 miliardi di titoli di stato e dalla situazione internazionale: la guerra dei dazi tra le due maggiori potenze economiche mondiali, Usa e Cina, trova un parallelo europeo nella battaglia della Brexit, che coinvolge in particolare le due maggiori economie del continente, Germania e Regno Unito. In entrambi i casi non può uscirne nulla di buono per l’Italia, perché la tensione che genera non può che determinare incertezza e sfiducia. Come se ne esce?

La Manovra, che presenta per lo più misure a basso moltiplicatore e a debito, non sembra studiata per fronteggiare la situazione. Che potrebbe portare alla recessione tecnica del Paese, se dopo il terzo trimestre 2018 anche il quarto segnerà il passo. Lo sapremo fra pochi giorni.

Forse abbiamo mancato l’ultima chance per rimettere definitivamente in corsa il Paese; o forse la ricetta c’è, è ancora valida, ed è quella di sostenere gli investimenti pubblici e privati.

Ne abbiamo parlato con il docente di economia Marco Fortis e con il partner di EY Marco Mignani.

L’ultimo trapezio

«Abbiamo mancato l’ultimo trapezio; e si volteggiava senza rete. Un disastro».

Inconsolabile Fortis, docente di economia industriale alla Cattolica di Milano.

Il problema è che l’aria è cambiata, negli ultimi mesi. Si è diffuso, in ambito industriale, «un pessimismo che si avvolge su se stesso, e che ha prodotto e produrrà danni».

Il docente è a contatto con le aziende. «Su dieci, da questa estate nove hanno gettato la spugna: hanno deciso che non si investe più».

Per Fortis, gli operatori hanno percepito il rallentamento dell’export; la frenata tedesca a cominciare dall’automotive, a causa della trasformazione forzata da diesel a benzina e da benzina a elettrico o ibrido; gli effetti del decreto dignità, con la non conferma dei contratti a termine; e altri elementi deprimenti; così a «NordEst, per esempio, è ricominciata la pratica di richiedere la cassa integrazione».

La primavera dell’industria italiana, che dalla metà del 2016 aveva portato a variazioni tendenziali positive dell’attività produttiva, si è dimostrata effimera. Il saldo tra opinioni di miglioramento e di peggioramento a proposito della situazione economica (indagine di Bankitalia) ha raggiunto quota – 40 nell’ultimo trimestre dello scorso anno.

L’industria, cioè, non vede una via di uscita dall’imbuto in cui si è cacciata l’economia, nazionale e internazionale. «Risulta evidente – afferma il Partner EY Mediterranean Diversified Industrial Product Mignani – che la ripresa era un po’ debole, e che era squilibrata. I costi per gli interessi erano bassi, ma questo vantaggio non è stato utilizzato per provvedimenti strutturali volti a rafforzare la nostra economia, ma per interventi a pioggia diretti a favorire i consumi.

E ora che l’export, che tanto ci aveva aiutato nella manifattura e nell’automotive, segna il passo, paghiamo il conto».

La primavera effimera e le sue ragioni

Secondo Fortis, i driver per la crescita erano due: gli incentivi per la trasformazione digitale, e cioè il cosiddetto 4.0, e i consumi privati.

«Per capire l’importanza dei primi – continua Fortis – basta fare qualche esempio pratico. Proprio in questi giorni ho visitato una azienda molto avanzata, considerato il comparto: la “Nobili Rubinetterie” di Suno, dalle parti di Novara. Classica azienda di famiglia, con un fatturato pari a circa 100 milioni. Ecco, ne ha investiti 12 in due anni: in robot, caricatori, macchine per il packaging, una piccola fonderia interna e tanto altro: tutti strumenti realizzati da aziende italiane». In effetti gli incentivi collegati al Piano Calenda avevano rappresentato un volano per l’economia. Soprattutto per quella delle macchine utensili, della robotica e dell’automazione.

A fine 2017 Ucimu, l’associazione che unisce le imprese di categoria, faceva i conti: la produzione (a quota 6,1 miliardi) era cresciuta del 10,1% rispetto all’anno precedente; le consegne del 16,1% nel mercato interno e del 5,8% all’estero; il consumo, nel Belpaese, era salito del 13,8%.

Dietro questo mondo, lavoravano i system integrator, i partner.

Complessivamente, anche nel 2018 il comparto ha continuato la corsa, con la produzione a quota 6,9 miliardi (+13,4%); ma già nel terzo trimestre si assisteva ad una decisa frenata degli ordini interni, – 15,3%. L’inerzia si stava esaurendo. «Fra il 2015 e il 2017 – afferma Fortis – per macchinari e mezzi di trasporto siamo andati meglio della Germania. È stato demenziale rallentare questo movimento: l’industria 4.0 è stata soffocata».

In effetti la sconsiderata incertezza del governo sulla continuazione degli incentivi, penosa condizione durata fino alla fine dell’anno passato, ha contribuito a produrre il calo degli investimenti. «Se sono un imprenditore e non so neppure se la mia azienda scarichi la spesa – afferma Mignani – con un po’ di buon senso cerco di rinviare l’investimento nell’attesa di un quadro un po’ più chiaro.

Va così, e non potrebbe andare diversamente. Va detto che la macchina del 4.0 funzionava soprattutto sul mercato domestico. Bene anche per l’export, ma non così bene. E quindi, nei momenti in cui l’export rallentava, gli insolitamente lunghi ordini a dieci mesi sul mercato indoor sono serviti eccome».

Com’è finita? Secondo l’Istat, il comparto meccanica e macchinari ha subito a novembre un calo tendenziale del 2,2%. Variazione in linea con quella della manifattura, -2,4% e dell’elettronica, -2,2%. Ma è chiaro che il 4.0 non guida più la riscossa.

La leva dei consumi non funziona più, perché cresce la pressione fiscale

Secondo Fortis, il tasso composto medio annuo nel periodo tra il 2015 e il 2017 è stato pari a + 1,7%.

«È stata una leva importante per la crescita del Paese. Se ne parla poco, e secondo me è strano. Comunque sia, l’incremento dei consumi era promosso dal calo fiscale, che nel 2017, rispetto al 2013, è stato pari a 1,4 punti di Pil, non considerando gli 80 euro, che valevano un altro 0,6%.

Anche qui, si andava meglio di altri Paesi europei. Va detto che dopo il periodo difficile con Monti, con i governi Letta, Renzi e Gentiloni la pressione fiscale è sempre calata.

Nel primo trimestre dell’attuale esecutivo si è invece assistito ad un aumento dello 0,1%, e nei documenti presentati dal ministro dell’economia Giovanni Tria si stima un incremento, per l’anno in corso, pari allo 0,4%. Non è un fatto positivo. La detassazione dell’Irap aveva dato un grande slancio alle imprese».

Il guaio dell’automotive tedesco

Già da settembre, le maggiori aziende tedesche di settore, Volkswagen, Bmw, Mercedes, Opel, hanno accusato perdite nelle vendite. La produzione di auto tedesca è crollata del 20%, nell’ultimo bimestre dello scorso anno.

Certo, su base mensile è arretrata in tanti Paesi, a novembre: dell’1,5% in Spagna, dell’1,3% in Francia e dell’1,9% in Germania.

Proprio questo dato ha però inciso sulla produzione industriale della più importante potenza europea, che ha accusato un calo del 4,7% su base annua. Ciò non deve sorprendere, visto l’enorme rilievo che il comparto riveste in quel Paese. Il fatto è che la questione del diesel sta generando scompiglio tra i carmaker.

Come già indicato da Industria Italiana qui, non si tratta di una normale evoluzione del mercato: l’auto green, elettrica o ibrida, si impone in modo accelerato sotto la spinta di amministrazioni locali, nazionali ed internazionali che in tutto il mondo definiscono nuovi limiti alla circolazione per i veicoli diesel e benzina.

Insomma, il gasolio è sotto scacco anche a seguito dello scandalo del diesel del 2015, mentre la benzina fatica a causa di una normativa Eu che impone di abbassare le emissioni di CO2 a 95 grammi al kilometro.

Il tutto è seriamente complicato dal Wltp, il nuovo test di omologazione dei veicoli, che comporta procedure più rigorose rispetto alle vecchie prove in vigore fino a poco tempo fa.

Gli investimenti per i giganti di comparto, quanto a green e quanto a conformità con le nuove normative, sono enormi; e intanto già nel 2017 si era previsto il rallentamento delle vendite nei Paesi maturi, come la Germania, il Giappone, e gli Usa.

«Per tante aziende italiane – afferma Mignani – terziste di quelle tedesche, soprattutto nell’automotive, non è una buona notizia.

La frenata dei grandi produttori tedeschi è anche la nostra, e anzi potrebbe determinare problemi considerevoli alla nostra economia, a medio termine». E poi il sistema dell’auto è ormai globalizzato. Ed è connesso.

Anche l’automotive italiano va male; e anche da noi ha un’importanza fondamentale per l’andamento della manifattura. Comunque sia, anche da noi, a novembre, il comparto ha subito uno scacco notevole, con un calo tendenziale del 13,3%.

Un quadro internazionale in decelerazione

La Germania non è un Paese come tanti. Non solo perché ha il quarto Pil nominale del mondo, quasi doppio rispetto a quello italiano; e non solo per lo straordinario avanzo commerciale o per il credito accumulato con gli altri Paesi sulle partite correnti di Target2.

La Germania è il fulcro di un sistema, quello dell’euro. Attorno alla Germania, vivono Paesi (Austria, Belgio, Paesi Bassi, e altri) le cui economie sono strettamente intrecciate con quella di Berlino. È la cosiddetta area economica tedesca, che già Helmut Kohl definiva “l’Europa tedesca”.

Secondo il Financial Times, il governatore della Bce Mario Draghi potrebbe prendere in considerazione l’ipotesi di tagliare le stime di crescita dell’intera zona euro. Lo ha già fatto, per la verità: da 1,8% a 1,7%.

Ma potrebbe non bastare. E se la Germania è importante per l’Europa, lo è soprattutto per noi.

L’import-export delle principali regioni italiane è paragonabile a quello che la Germania ha con importanti Paesi: come ha notato Il Sole 24 Ore, Lombardia e Giappone, Veneto e Canada, Emilia-Romagna e Vietnam esprimono gli stessi valori di scambio con Berlino.

Il quadro di riferimento, però, è assai più complicato e gravido di pericoli. «Si pensi alla guerra dei dazi tra i due giganti globali, gli Usa e la Cina – afferma Mignani – o alla Brexit».

Perché non c’è ombra di dubbio che la regolazione dei rapporti tra la Germania in particolare e il Regno Unito avrà effetti di rilievo per tutto il Vecchio Continente. D’altra parte, senza accordo il rischio di recessione per il regno Unito è sensibile. «Con il raffreddamento dell’economia europea, poi, – afferma Mignani – i singoli Paesi tendono a diventare sempre più egoisti.

Non vorrei che la dolorosa acquisizione dei cantieri di Saint-Nazaire da parte di Fincantieri, affare a rischio a causa della richiesta di Francia e Germania di un esame da parte dell’Antitrust europea, non avesse a che fare con questi atteggiamenti nazionalisti e protezionistici. Si tende ad esporre la bandiera nazionale, per accordarsi con il clima politico interno».

D’altra parte, secondo Mignani, «siamo al fallimento di una politica economica di crescita in modo esclusivo, che ha lasciato fuori dell’area del benessere larghe fasce della popolazione. L’attuale esplosione del sovranismo è solo una conseguenza; le prossime elezioni europee, perciò, sono motivo di preoccupazione.

Serve dunque un nuovo modello inclusivo, che tenda ad eliminare le disparità tipiche delle società contemporanee; altrimenti, l’avanzata del populismo e di soluzioni controproducenti è inevitabile».

La Manovra è un’occasione mancata, o forse renderà necessarie correzioni già in primavera


«L’unica cosa da fare è dire che ci siamo sbagliati e rinunciare a quota 100 e reddito di cittadinanza» – avvertiva su La Stampa a fine novembre Guido Tabellini, docente di economia all’università Bocconi.

Le previsioni di crescita del Pil per l’anno in corso, prima fissate all’1,5% e poi ridotte all’1% (nella nota di aggiornamento del Def) dal governo, non erano realistiche; secondo Tabellini, erano più probabili quelle di Goldman Sachs e di Oxford Economics, che abbassavano la percentuale rispettivamente allo 0,4% e allo 0,5%.

Per il docente, la recessione avrebbe potuto colpire il Paese già nel primo trimestre del 2019; misure come il reddito di cittadinanza e quota 100, recanti incertezza in un quadro complicato «da fattori internazionali e da dall’aggravarsi della stretta creditizia», andavano sostituite da quelle per la crescita, e cioè quelle ad alto moltiplicatore, e da quelle volte alla riduzione del debito pubblico, fonte di massima preoccupazione.

A poche settimane di distanza, alla possibilità dell’Italia di centrare l’obiettivo di Pil, un misero 1%, non ci crede più nessuno. Tabellini, in un nuovo articolo su La Stampa, afferma che anche un miserrimo 0,5% sarà complicato da raggiungere, perché ormai di recessione si parla.

Il docente è convinto che «siamo riusciti a farci del male da soli» e forse non ha torto. Il problema è peraltro che uno 0,5% in Pil di meno significano sette miliardi di Pil in meno.

È stato osservato che, considerata una tassazione pari al 43%, ciò significa che le entrate dello Stato saranno minori per circa tre miliardi. Pertanto, già si parla di manovra correttiva per il 2019. I guai, per Tabellini, non riguarderebbero solo l’anno in corso, ma si estenderebbero al 2021.

La mancata staffetta tra investimenti privati e pubblici e il “boom” di Di Maio

Chi in questi giorni di forti preoccupazioni per la tenuta dell’industria italiana vede il mondo in rosa è invece il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, il quale ha rilasciato la testuale affermazione: «Io credo che un nuovo boom economico possa nascere; come negli anni Sessanta abbiamo costruito le autostrade tradizionali, adesso abbiamo di fronte una grande sfida: creare le autostrade digitali. È questo il terreno in cui la nostra fantasia, come diceva Enzo Ferrari, si potrà sbizzarrire».

Nessuno ha capito in base a quali fattori o in rapporto a quali previsioni il ministro abbia reso questa affermazione. Ma, se non altro, Di Maio ha introdotto il tema delle infrastrutture, che è un altro aspetto dolente della Manovra.

«Finanziaria che non ha elementi di crescita di alcun tipo – afferma Mignani – né prevede attività “keynesiane”. Nell’angolo in cui si era cacciato il governo, doveva restituire alcune promesse, come il reddito di cittadinanza, sorta di linea del Piave per l’esecutivo.

Ma quanto alle grandi opere, sono tutte al palo; eppure potrebbero dare un fortissimo impulso all’economia e all’occupazione».

Gli fa eco Fortis, secondo il quale «è tutto paralizzato, ed è venuta meno la possibilità di dar vita ad una staffetta tra l’investimento privato, quello in industria 4.0 penalizzato dalle incertezze del governo e poi rimodulato al ribasso dalla Manovra, e quello pubblico in grandi opere. Sarebbe stato un passaggio fondamentale per il Paese.

Almeno, se si era deciso di diffondere insicurezza sulla trasformazione digitale, per lo meno si poteva mettere di nuovo in moto la macchina degli appalti». Comunque sia, il boom non lo vede il ministro dell’economia Tria, secondo il quale però, come affermato in un’intervista al Corriere della Sera, occorre fare una precisazione: «Aspettiamo i dati sull’ultimo trimestre 2018. Non vedo una recessione, vedo una situazione di stagnazione».

Dense nubi all’orizzonte. E la ricetta per uscirne

Si tratta, anzitutto, di evitare la recessione, che si verifica quando il Pil diminuisce per almeno due trimestri consecutivamente. Il terzo del 2018 era in calo. Il quarto è previsto in calo, ma bisogna attendere fine gennaio, quando arriveranno i dati.

Si tratterà, quest’anno, di trovare 23 miliardi solo per evitare l’aumento dell’Iva. Una questione complessa; ma è possibile che si possano reperire con una nuova manovra in primavera. E poi c’è una partita ancora più rilevante: quest’anno si dovrà collocare 400 miliardi di titoli di Stato, tra Bot e Cct. La Bce di Mario Draghi si è messa in panchina.

I grandi fondi e le banche centrali sono in ritirata. Chi li comprerà? Pur prendendo atto  che il Tesoro ha fatto il pieno nell’asta di Btp di inizio gennaio che ha registrato rendimenti in calo per i titoli a 3 e 7 anni e un’ottima qualità della domanda, le preoccupazioni restano.

Secondo Fortis «non sarà facile piazzarli. In Italia solo Intesa San Paolo o Unicredit potrebbero intervenire. Speriamo che si faccia avanti qualche banca straniera».

Insomma, ci aspettano periodi difficili, dove i guai dell’economia generale e quelli dell’industria sono destinati a rincorrersi vicendevolmente.

Ma allora, come se ne esce? Difficile dare una risposta. Pier Carlo Padoan, in un’ intervista al Corriere della Sera, la vede così: «È troppo tardi per ricostruire un clima di fiducia, dal momento che il governo si è legato mani e piedi alle due misure bandiera, le pensioni e il reddito di cittadinanza». È crollata la fiducia, «e senza fiducia si ferma tutto».

Ma comunque sia, «la ricetta è una sola, sostenere gli investimenti sia pubblici che privati».


Marco de’ Francesco, Industria Italiana
https://www.industriaitaliana.it/ecco-perche-la-produzione-industriale-italiana-e-crollata-e-che-cosa-potrebbe-avvenire-in-futuro

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