L'ITALIA torna ad andare indietro. Che fare per reagire alla recessione?


L'Italia torna ad essere in recessione. L'Istat ha comunicato oggi che anche nel trimestre ottobre-dicembre 2018 il Prodotto Interno Lordo del nostro Paese (cioè il valore di mercato aggregato dell'insieme dei beni e servizi prodotti in un determinato periodo di tempo) è diminuito dello 0,2% rispetto al trimestre precedente. Anche nel terzo trimestre (luglio-settembre 2018) il PIL era diminuito, dello 0,1% rispetto al secondo trimestre.

Figura 1 - Andamento del Prodotto Interno Lordo Italiano, espresso in milioni di euro a prezzi costanti del 2010.
I dati trimestrali sono destagionalizzati per il ciclo economico e aggiustati per il numero di giorni lavorativi.

Il valore del PIL italiano, dopo le importanti perdite del 2008 e del 2011-2012, dal 2013 era in crescita lenta ma costante  (vedi Figura 1).

Nell'ultimo semestre è tornato di nuovo a calare, nonostante le previsioni del Governo Italiano, che aveva impostato la manovra di bilancio per il 2019 su un'ipotesi di crescita del PIL prima dell'1,5% e poi dell'1%.  Ora il governo ipotizza ulteriori cali per tutto il primo semestre del 2019 e prevede una riprese nel secondo semestre (dichiarazioni di oggi del Presidente del Consiglio Conte).

 "Il calo del Pil è peggiore delle previsioni ed il peggior risultato degli ultimi 5 anni, e deve portare il Governo a correre ai ripari per evitare ripercussioni su industria e imprese." - ha commentato Carlo Rienzi, Presidente del Codacons - "Il rischio concreto, tuttavia, è che scattino le clausole di salvaguardia con il conseguente incremento delle aliquote Iva nel 2020, una circostanza che determinerebbe il colpo di grazia per consumi e commercio, e un danno immenso per le famiglie

Il Presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, prevede per il primo trimestre 2019 un rallentamento ancora superiore ed avverte: "  “Bisogna reagire quanto prima, in modo da compensare il rallentamento dell’economia globale e dell’Italia, cominciando ad aprire immediatamente i cantieri, su cui ci sono risorse già stanziate, compresa la Tav". 

Anche il Governo, come dichiarato dal Presidente Conte, prevede ulteriori difficoltà del PIL per tutto il primo semestre del 2019: "se nei primi mesi di quest'anno stenteremo ci sono tutti gli elementi per sperare in un riscatto, di ripartire con il nostro entusiasmo, soprattutto nel secondo semestre".

I dati dell'Istat ci dicono che il valore aggiunto prodotto dall'economia italiana è diminuito principalmente nel settore della produzione industriale ed agricola, mentre è stabile per il settore dei servizi. Ha pesato particolarmente una forte diminuzione della componente nazionale della domanda, mentre è aumentata la domanda proveniente dall'estero.

Tutti i principali Paesi Europei sono in sofferenza, ma la situazione dell'Italia appare significativamente più grave di quella degli altri Stati membri.
Figura 2 - Andamento del Prodotto Interno Lordo Italiano in relazione a quello medio di tutti gli altri Paesi dell'Area Euro.

Come mostrato in Figura 2, il PIL dell'Italia dal 2000 al 2018 è cresciuto solo del 4%, mentre in tutti gli altri Paesi dell'Area Euro è cresciuto di circa il 30%. Una differenza abissale.

Come si spiega una tale differenza? 

In primo luogo scarsi investimenti in innovazione sia dei processi produttivi, in molti casi obsoleti e a bassa produttività, sia dei processi amministrativi e burocratici, che sono lunghi, costosi e spesso inutili.

Ci sono poi gli effetti negativi di un debito pubblico troppo elevato, il 132% del PIL, e di una spesa pubblica anch'essa troppo alta, che si avvicina al 50% del valore del PI, e di scarsa qualità, con molti sprechi e pochi investimenti in ricerca e in sostegno al sistema produttivo.

L'eccessivo valore del debito Pubblico comporta elevati interessi da pagare e una sostanziale dipendenza dalla fiducia dei mercati, che se viene a mancare o si riduce ha come conseguenza un corrispondente incremento del tasso di interesse che dobbiamo pagare sul debito. Tale fiducia è misurabile attraverso il valore del cosiddetto Spread (differenziale), valore che è indicativo degli interessi che paghiamo in più per il denaro che ci prestano (attraverso i titoli BTP) rispetto alla Germania (BUND). 

Un punto base di Spread corrisponde a una differenza tra i due rendimenti dello 0,01 per cento. Quindi 100 punti base corrispondono a una differenza dell’1 per cento.

Figura 3 - Andamento dello spread Btp-Bund nel periodo 2000 - 2018

Come si vede dal grafico in Figura 3, l'Italia ha avuto nel 2011-2012 una grave crisi di fiducia, con uno spread che  ha superato ampiamente i 500 punti base.

Per finanziare il suo debito lo Stato Italiano doveva pagare un tasso di interessi maggiore del 5% annuo rispetto alla Germania,  potenzialmente oltre 100 miliardi in più all'anno, situazione del tutto insostenibile, che aveva portato alla caduta del Governo Berlusconi e all'arrivo di Monti, che aveva adottato misure per dare fiducia ai mercati.

Tali misure avevano si  messo i conti sotto controllo e tranquillizzato i mercati, ma hanno anche rallentato la successiva ripresa dell'economia Italiana, che è quindi proceduta molto più lentamente rispetto al resto d'Europa.

Figura 4  - Andamento dello spread Btp-Bund negli ultimi due anni

Anche dopo la cura Monti lo Spread è rimasto comunque elevato, ma di entità più accettabile, sempre sotto i 200 punti base. Questo fino a maggio del 2018, quando è iniziato a salire bruscamente, soprattutto in conseguenza dell'incertezza sulla situazione politica italiana.

Ha superato ampiamente quota 300 punti, assumendo quindi un andamento altalenante, ma con quotazioni sempre superiori ai 200 punti base.

In buona sostanza, chi ci presta i soldi acquistando titoli di stato (banche, fondi di investimento ma anche semplici risparmiatori), hanno paura di perdere i propri soldi e quindi vendono i titoli o, per acquistarli o tenerli, chiedono interessi maggiori.  Per valutare il rischio molti investitori si basano sul giudizio di agenzie specializzate (agenzie di rating), che valutano il rischio di investire soldi in aziende o anche in titoli di uno Stato.

Le tre principali agenzie che valutano anche l'affidabilità dell'Italia sono Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch, che esprimono la loro valutazione assegnando delle lettere alla qualità del debito.

Figura 5 - Andamento della valutazione che le tre maggiori agenzie di rating hanno dato dal 1986 al 2016 della qualità del debito pubblico italiano. ruenumbers ha trasformato le lettere in numeri partendo da un massimo di 21 per la “AAA” di Moody’s fino a 1 per la “C”, che è parere peggiore assegnato dall’agenzia americana. Per Standard & Poor’s si parte da un massimo di 25 fino ad un minimo di 1 per la sua “D”. Per Fitch si parte da un massimo di 22 a 1 per la “D”.Non vengono presi in considerazione gli “outlook”, cioè le “previsioni” che ogni singola società di rating assegna all’andamento dell’economia e della solidità del debito. Nel grafico sono, in altre parole, indicati solo i valori numerici del voto vero e proprio (fonte Truenumbers).

Prendiamo ad esempio le valutazioni di Moody’s (linea blu).  Questa agenzia nel 1986 assegnava al debito pubblico italiano una valutazione pari a 21, cioè il massimo (“tripla A”). Nel corso del tempo il voto è sceso fino a 13, corrispondente ad un voto “Baa2”.

A ottobre 2018 il rating è stato ancora diminuito, arrivando a Baa3, il livello più basso e a maggior rischio per gli investitori. Infatti i livelli più bassi, che vanno dal Ba1 in giù, sono considerati investimenti troppo rischiosi e Moody’s ne sconsiglia l'acquisto (titoli spazzatura).

Un discorso simile vale per le valutazioni delle altre agenzie.  Come dire siamo arrivati ad un passo dal baratro, dovremmo smetterla di giocare con il fuoco, invece.

Secondo le agenzie di rating l’Italia è uno dei Paesi a maggior rischio in Europa. 

I motivi di una tale valutazione sono molteplici.

Innanzi tutto l’enorme peso del debito pubblico, che viaggia veloce verso i 2.400 miliardi di euro, oltre 100.000 euro per ogni famiglia italiana per capirci, 35.000 euro per ogni italiano, neonati compresi.

Abbiamo poi l'elevata disoccupazione, l'enorme evasione fiscale, la bassa produttività delle imprese,  l’inefficienza della Pubblica Amministrazione, l’instabilità politica, gli scarsi investimenti in ricerca e sviluppo, l’inadeguatezza del sistema scolastico, dei servizi pubblici, delle infrastrutture, ecc.

Gioca un ruolo negativo anche l'eccessivo valore della spesa pubblica.  Avere una spesa pubblica che si avvicina al 50% del valore del PIL, significa che quasi la metà della ricchezza prodotta dal nostro Paese viene acquisita e gestita dalla Pubblica Amministrazione, che inoltre la gestisce con modalità e regole che è difficile giudicare come efficaci, efficienti ed in qualche modo produttive.

La situazione quindi non è indubbiamente delle più rosee, anche per il peggiorare delle condizioni internazionali (la politica dei dazi in USA, la Brexit, la frenata della Cina) e per la riduzione dell'importante sostegno che veniva all'Italia della Banca Europea, che in questi anni ha acquistato notevoli quantità di titoli di stato italiano (il cosiddetto "quantitative easing" o alleggerimento quantitativo).

Quindi, per riuscire ad evitare di finire nel vicino baratro (si guardi cosa è successo negli anni scorsi in Grecia) bisogna reagire al più presto, con interventi decisi e sostanziali.

Il governo dovrebbe avviare misure strutturali per rendere più efficiente la macchina pubblica e i processi decisionali, diminuendo il costo della burocrazia per le imprese e riducendo e qualificando la spesa pubblica, in modo da ridurre il peso del debito e liberare risorse da destinare ad investimenti in infrastrutture e a sostegno dell'innovazione e della competitività del nostro sistema produttivo, .

Figura 6 - la distribuzione della ricchezza in Italia nel 2017
(dati rapporto Oxfam). I dati ci dicono che il 20% più ricco
della popolazione italiana detiene più di 2/3 della ricchezza.
Il 60% degli italiani detiene meno del 15% di tutta la
ricchezza nazionale. 
Le imprese dovrebbero investire in innovazione, per migliorare la produttività e la competitività sui mercati.

Attenzione però. In questi anni le innovazioni tecnologiche hanno consentito alle imprese più innovative di produrre un'enorme ricchezza con meno capitali e meno mano d'opera.

Questa situazione sta provocando una concentrazione della ricchezza in mano ad una quota sempre minore di popolazione (vedi Figura 6), fenomeno che ha come conseguenza, oltre ai conflitti sociali ed all'emergere di estremismi di vario tipo, una inevitabile riduzione della domanda, che aggrava la crisi e innesta un pericoloso circolo virtuoso.

Il tema di una razionale ed equa redistribuzione della ricchezza prodotta con l’ausilio crescente delle tecnologie, sarà sempre più rilevante, soprattutto in una società che diventa ciberfisica, dove i beni e molti servizi saranno sempre più prodotti da macchine e sistemi automatizzati, con un minore impiego di risorse umane rispetto ai sistemi attuali.

Senza efficaci politiche fiscali, di formazione e inclusione sociale, di investimento in nuovi prodotti e servizi, il divario nella distribuzione della ricchezza potrebbe aumentare ulteriormente nei prossimi anni.

Sono quindi urgenti politiche fiscali, di formazione e inclusione sociale, di investimento in nuovi prodotti e servizi, per favorire e qualificare l'occupazione, per garantire livelli di salario adeguati e più in generale per redistribuire efficacemente la ricchezza prodotta. 

Senza azioni efficaci la crisi economica ed il divario nella distribuzione della ricchezza potrebbe ulteriormente aggravarsi nei prossimi anni.

Quindi si possono e si devono quindi fare tante cose. Dobbiamo però iniziare a farle in fretta, perché tutti i segnali che arrivano ci stanno dicendo che il tempo non sta affatto giocando a nostro favore.


IDIGIT - Centro Sviluppo Innovazioni Digitali:

Dati ISTAT: www.istat.it/it/archivio/226611



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